Contributo di Antonio D’Ovidio – È.one abitarègenerativo
“Niente più sarà come prima” è diventato il mantra di economisti, sociologi, medici, ricercatori, politici, amministratori. Tutti continuano a ripeterlo. È la stessa frase che ricorreva dopo l’11 settembre 2001, all’indomani dell’attacco terroristico alle torri gemelle a New York e dopo “l’infarto” dell’economia mondiale nel 2008. Eventi che hanno scosso le coscienze, ma che sono rimasti limitati a precisi contesti territoriali o a determinati settori dell’esistenza; non sono, per così dire, entrati nelle nostre case, tanto da poterli archiviare facilmente e farli diventare memoria. Ma questa volta non sarà la stessa cosa. Oggi viviamo lo spegnersi di amici e parenti più stretti in una modalità che nessuno ricordava da più di mezzo secolo. Contiamo le bare che dai cimiteri e dalle chiese vengono trasportate da lunghe code di mezzi militari verso i forni crematori. Oggi tutto il mondo è colpito simultaneamente. Nessuno è escluso. Nessun angolo della terra è immune alla pandemia generata dal covid-19.
“Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti”. [1]
L’emergenza ci ha subito posti di fronte alla necessità di rivedere il nostro modo di coltivare e custodire la terra, di come abitarla, come essere uomini e donne in un mondo interconnesso e drammaticamente colpito. Abbiamo dovuto accettare “il distanziamento sociale” e rinunciare ad affollare piazze, stadi, teatri, cinema, ristoranti, centri commerciali. Siamo stati rapidamente costretti ad abbandonare le aule delle scuole e seguire le lezioni da casa. A svuotare gli uffici e imparare ad usare le tecnologie per il “lavoro agile”. La casa è diventato un luogo di rifugio dove prendersi cura e custodire la salute personale e collettiva.
“La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità”.[2]
La Cura. Non avremmo mai pensato che un ospedale, una residenza protetta, una RSA e altri luoghi simili potessero diventare delle bombe di contagio incontrollabili e, spesso, causa di tanta morte. Che i dispositivi del sistema sanitario, ultra-specializzati, potessero rivelarsi fragili quando la domanda di cura supera l’immaginabile e i protocolli sanitari inappropriati di fronte all’imprevedibile. Forse bisognava chiedersi, come aveva già fatto nel’93 Ivan Illich, se questa fragilità non derivi dal fatto che “La scienza e la tecnica sono alla base del modo di produzione industriale e per questo fatto impongono l’accantonamento di ogni attrezzatura specificamente legata ad un lavoro autonomo e creativo”.[3] Si pensi ad esempio al contributo che avrebbero potuto dare i medici di famiglia nel controllo capillare dei contagi e nelle preventive, se fossero stati inseriti in un sistema diverso, meno centralizzato e meno industrializzato. Se, come osserva Johnny Dotti, “alla trasformazione degli ospedali” fosse corrisposta“una diversa organizzazione territoriale,” in grado di coinvolgere “tutti gli operatori. In nome di una continuità assistenziale che dai presidi di comunità gestiti dai medici di base possa accompagnare il paziente verso la cura e poi la riabilitazione, gestita anche a domicilio”.[4]
La città e i territori. Chi avrebbe mai immaginato che la concentrazione della popolazione nelle grandi città e nei territori metropolitani potesse oltre a vantaggi e opportunità, essere responsabile di un tale rischio e pericolo. Che avrebbe aggiunto a problemi già drammaticamente conosciuti, come isolamento, inquinamento, disuguaglianza e scarto umano e sociale, la subdola insidia dell’elevato rischio di contagio. Abbiamo abbandonato, e continuiamo ad abbandonare, territori ricchi di storia, biodiversità e opportunità inespresse, in nome della concentrazione produttiva, di una maggiore efficienza, di un’economia di scala che ancora una volta hanno rivelato la loro fragilità. Molti proprietari di seconde case, in piena emergenza covid-19 e incuranti delle normative, hanno cercato in fretta e furia di lasciare la città per un luogo meno inquinato, più vivibile, più umano: piccoli paesi e borghi meno contaminati che si sono trasformati d’un tratto da meri luoghi di villeggiatura ad approdi sicuri per prendersi cura della propria salute. Paesi e borghi che potrebbero a pieno titolo tornare ad essere luoghi di relazioni e di vita sostenibile.
Eppure, da anni si parla di riqualificazione, recupero, rigenerazione di luoghi che nel tempo erano stati condannati allo spopolamento e alla desertificazione economica e culturale. Ci sono paesi interi che attendono di essere ricostruiti dopo i terremoti. Rigenerare quei territori, quei luoghi, le economie, le produzioni agricole, è un atto di responsabilità civica collettiva. Una responsabilità verso la terra e le generazioni future.
Il Lavoro. Siamo stati costretti ad appropriarci in fretta e furia di un nuovo modo di lavorare: il lavoro da casa. Una modalità che è certamente destinata a segnare una nuova era, con un impatto significativo sull’organizzazione delle aziende, sulle infrastrutture e sugli spazi di lavoro. Sicuramente un nuovo eco-sistema di relazioni che pone i temi della fiducia, lealtà, trasparenza, corresponsabilità come dimensioni essenziali delle forme organizzative stesse. Gli uffici, le case e i luoghi dell’abitare dovranno necessariamente adeguarsi alle nuove forme di lavoro.
Il cibo. L’assalto quotidiano, ingiustificato, agli scaffali dei supermercati e alle farmacie, alla ricerca di scorte di cibo e di dispositivi di protezione individuali, oltre a confermare l’assoluta straordinarietà della situazione, ha messo a nudo la pericolosità dei luoghi stessi a cui siamo soliti rivolgerci per soddisfare i bisogni primari. Rivelando così tutta la nostra dipendenza dal mercato globale degli alimenti e delle merci e la fragile capacità di autosufficienza in caso di necessità. Se dovesse perdurare la pandemia ci saranno scorte sufficienti di frutta, verdura, pasta, olio, e altri alimenti necessari? Saremo in grado, attraverso un’economi autarchica, di soddisfare la domanda interna nel caso gli altri stati dovessero impedire l’esportazione, come sta accadendo per alcuni presidi sanitari? Tutte domande che, forse, ci siamo fatti in passato ma che, in mancanza di una reale emergenza, non hanno avuto un seguito. Sono rimaste tali.
La terra. La nostra inerzia consumeristica e efficientista ci ha resi sordi al grido della terra, “nostra casa”, depredata e sofferente, trasformata in “un immenso deposito di immondizia”.[5] Soffrono la terra, l’aria, l’acqua. L’intero ecosistema è alterato dalla rapidità dei cambiamenti imposti dalla forsennata produzione di beni di consumo non solo e non sempre necessari. Assistiamo immobili ad una progressiva perdita della biodiversità.
“Questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano rapidamente in spazzatura. […] Trascurare l’impegno di coltivare e mantenere una relazione umana corretta con il prossimo, verso il quale ho il dovere della cura e della custodia, distrugge la mia relazione interiore con me stesso, con gli altri, con Dio e con la terra. Quando tutte queste relazioni sono trascurate, quando la giustizia non abita più sulla terra, la Bibbia dice che tutta la vita è in pericolo”.[6]
La Casa. La situazione ci obbliga a casa. Il luogo dell’intimità e dell’alterità per eccellenza dove “interiorità” ed “esteriorità” si rincorrono, si adattano, si ricompongono: l’uomo è un abitante abitato. La casa è tornata il luogo dove si è ricomposta la famiglia, si riscoprono le relazioni, si sperimenta nuovamente la prossimità. Gli eventi ci hanno obbligano a biasimare i nostri stili di vita, a soffrire l’allentamento dei legami. Dal remoto della nostra casa siamo alla ricerca angosciata di relazioni attraverso ogni mezzo. Nutriamo un rinnovato bisogno di solidarietà per alleviare lo sconfortevole abbandono alla solitudine. Nella comune difficoltà proviamo dal profondo di noi stessi un irriducibile bisogno dell’altro.
Nel futuro: “remare insieme”. “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme”, è stato il recente ammonimento di Papa Francesco. Nessuno può salvarsi da solo. “Questo significa porre la persona e il bene comune quali criteri centrali della propria gerarchia di valori. Solo la convinzione profonda del debito costitutivo che abbiamo nei confronti degli altri ci permette di riconoscere che l’uomo è un essere originariamente relazionale. […] La solidarietà, per essere attuata, richiede uno sforzo di uscita da sé e accettazione del rischio dell’ignoto. Accettazione che la programmazione compiuta possa essere sovvertita dall’urgenza che si presenta, dal volto che incontro e che mi interpella”.[7] La condizione di isolamento generata dall’emergenza covid-19 ci pone, con forza, di fronte a scelte radicali su nuove forme dell’abitare più eque, più sostenibili, più solidali, che si riconoscano nell’essere comunità generativa di uomini e donne.
[1] Dall’Omelia di Papa Francesco, Piazza S. Pietro, 27 marzo 2020
[2] Ibidem
[3] Ivan Illich, La convivialità, EQ, 1993
[4] Johnny Dotti, Buono è giusto, Luca Sasselli Editore, 2015
[5] Dall’Enciclica Laudato Si, Papa Francesco, 2015
[6] Ibidem
[7] Angelo Scola – Luigi Campiglio – Walter Magnoni – Silvano Petrosino, Non soli ma solidali, Centro Ambrosiano, 2014